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Sicurezza sul lavoro - COVID-19: i riders devono essere dotati di mascherine, guanti e gel disinfettante

Con decreto inaudita altera parte del 14 aprile 2020, il Tribunale del lavoro di Bologna ha condannato una società di consegne mediante piattaforma a fornire a un rider i dispositivi di protezione individuale (guanti monouso, mascherine protettive, gel disinfettanti e prodotti alcolici per la pulizia dello zaino). Secondo il giudice del lavoro, sussiste il “fumus boni iuris” del diritto del rider alla consegna di questi dispositivi, nonché il “periculum in mora” poiché lo svolgimento dell’attività lavorativa in mancanza di questi dispositivi “potrebbe esporre il ricorrente, durante il tempo occorrente per una pronuncia di merito a pregiudizi anche irreparabili del diritto alla salute”.


La pronuncia in esame si occupa del tema della sicurezza sul lavoro dei riders nella situazione di emergenza epidemiologica da COVID-19.

Un rider di una società di consegne mediante piattaforma ha proposto ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c. davanti al Tribunale di Bologna chiedendo al giudice del lavoro di condannare la società a fornirgli i dispositivi di protezione individuali contro il rischio di contagio da COVID-19. In particolare, il ricorrente chiedeva che la Società gli desse in dotazione guanti monouso, mascherine protettive, gel disinfettanti e prodotti alcolici per la pulizia dello zaino.

Il Tribunale del lavoro di Bologna ha accolto il ricorso ravvisando il “fumus boni iuris” del diritto del rider alla consegna dei suddetti dispositivi e il “periculum in mora”. Secondo il giudice del lavoro lo svolgimento dell’attività lavorativa in assenza di questi dispositivi “potrebbe esporre il ricorrente, durante il tempo occorrente per una pronuncia di merito a pregiudizi anche irreparabili del diritto alla salute”. Di conseguenza, ha condannato la società, con decreto inaudita altera parte, a fornire al ricorrente questi dispositivi, poiché la preventiva convocazione delle parti avrebbe potuto pregiudicare la sua utile attuazione.

Di seguito le argomentazioni sulle quali si fonda la decisione del giudice del lavoro.

Anzitutto, il Tribunale di Bologna ribadisce la natura etero-organizzata dei rapporti di lavoro dei riders ex art. 2, D.Lgs. 81/2015, recentemente modificato da D.L. 101/2019, convertito dalla L. 128/2019. In particolare, il giudice del lavoro richiama la nuova formulazione della norma che ha qualificato come etero-organizzate tutte quelle prestazioni “prevalentemente [e non più “esclusivamente”] personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente” menzionando espressamente il lavoro tramite piattaforme digitali ed eliminando la locuzione “anche con riferimento ai luoghi e ai tempi di lavoro”. Poi si sofferma sui principi espressi dalla Corte di Cassazione chiamata, di recente, a pronunciarsi sulla questione della qualificazione del lavoro etero-organizzato ex art. 2, D.Lgs. 81/2015 (Cass., sez. lav., 24 gennaio 2020, n. 1663). Con questa sentenza, la Cassazione ha chiarito che, l’interprete non deve effettuare un’indagine sistematica sulla natura autonoma o subordinata del lavoro etero-organizzato, ma deve limitarsi ad accertare la sussistenza di taluni indici fattuali tipici del lavoro subordinato. In caso di esito positivo di questa verifica, il giudice deve applicare la disciplina del lavoro subordinato anche ai lavoratori etero-organizzati. Tra questi elementi devono essere considerati alcuni elementi del rapporto di lavoro, indici di una condizione di “debolezza economica” del lavoratore, e, di conseguenza, deve essere applicata la tutela più protettiva del lavoro subordinato. In definitiva, il giudice deve accertare la natura etero-organizzata del rapporto e applicare le regole del lavoro subordinato, eccezion fatta per quelle “ontologicamente incompatibili con le fattispecie da regolare”. Tra queste regole vi rientrano certamente le norme in materia di sicurezza e igiene, retribuzione diretta e differita (quindi inquadramento professionale), vincoli di orario, ferie e previdenza, come chiarito anche dalla giurisprudenza di merito (Corte di Appello di Torino, sez. lav., del 4 febbraio 2019, n. 26).

Ciò premesso il Tribunale di Bologna richiama il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’11 marzo 2020. Secondo questo DPCM è prevista la sospensione su tutto il territorio nazionale delle attività dei servizi di ristorazione. Tuttavia, il DPCM consente la prosecuzione della sola ristorazione con consegna a domicilio “nel rispetto delle norme igienico – sanitarie sia per l'attività di confezionamento che di trasporto” a tutela della salute del collaboratore interessato “ma anche della utenza del servizio e, con essa, della collettività intera”. Tra le prescrizioni igienico sanitarie appare quindi ragionevole ricomprendere l’uso dei dispositivi di protezione individuale quali guanti, mascherine e prodotti igienizzanti, la cui adozione nell’ambito di tutte le attività produttive viene raccomandata dallo stesso DPCM. Dispositivi che appaiono a maggior ragione necessari nello svolgimento delle attività che comportano il contatto con il pubblico.

Ne consegue che il committente deve provvedere a garantire il rispetto delle prescrizioni igienico-sanitarie previste per l’attività di trasporto e consegna a domicilio dei prodotti alimentari. In definitiva sussiste un obbligo di dotazione dei dispositivi di protezione individuale al fine di garantire la tutela della salute del rider e dei cittadini fruitori del servizio.

La sentenza in commento è conforme a un altro precedente di merito che si è pronunciato su un caso analogo (Trib. Firenze, sez. lav., 1° aprile 2020, n. 886). Anche il giudice del lavoro di Firenze ha condannato la società a fornire le dotazioni di protezione individuale al rider al fine di garantire lo svolgimento dell’attività lavorativa in sicurezza. Allo stesso modo del giudice del lavoro di Bologna, il Tribunale di Firenze ritiene applicabile la disciplina del rapporto di lavoro subordinato ai lavoratori etero-organizzati ex articolo 2 D.Lgs 81/2015, aderendo al più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità sopra analizzato. Inoltre, il giudice del lavoro di Firenze richiama la disciplina del Capo V-bis del D.Lgs 81/2015 relativa alla tutela del lavoro tramite piattaforme digitali finalizzata a stabilire livelli minimi di tutela per i lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a motore attraverso piattaforme anche digitali. In particolare, l’art. 47 septies, secondo il quale il committente deve, a propria cura e spese, provvedere al rispetto delle disposizioni in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro di cui al D.Lgs 81/2008, nei confronti dei suddetti lavoratori autonomi e quindi anche “il rispetto di quanto previsto dall’art. 71 del D.Lgs 81/2008”. Con questo richiamo pare che il giudice del lavoro di Firenze intenda estendere l’applicazione dell’intera disciplina del Testo Unico di salute e sicurezza sul lavoro al rapporto di lavoro dei riders. Tema che sarà, certamente, oggetto di discussione e di approfondimento nell’ambito del giudizio di merito.

In conclusione, la sentenza in esame chiarisce che i riders in particolare e i lavoratori etero-organizzati in generale debbano essere dotati dei dispositivi di protezione individuale per svolgere le attività lavorative in sicurezza nella fase di emergenza epidemiologica da COVID-19. Restano invece ancora alcuni dubbi su punti potenzialmente critici che saranno probabilmente affrontati durante il giudizio di merito. Ad esempio, non viene chiarito se l'impresa, oltre a dotare i lavoratori etero-organizzati dei dispositivi di protezione individuale, debba anche prevedere una regolamentazione circa il loro utilizzo. In altri termini, non viene chiarito se il committente debba anche prevedere apposite azioni di vigilanza e misure organizzative favorendo la diffusione dei modelli organizzativi e di gestione relativi all’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale, come avviene per i lavoratori subordinati nel rispetto dell’art. 2087 cod. civ. e della normativa di cui al D.Lgs 81/2008.

Su questi punti e su altri che emergeranno con il passare del tempo, saranno preziose le prime pronunce di merito per orientare gli interpreti.

Riferimenti normativi:

art. 700 c.p.c.

art. 2 D.Lgs 81/2015

Emergenza Coronavirus - Emergenza Covid-19: il buono per la spesa alimentare spetta anche allo straniero irregolare

Il buono per la spesa alimentare, previsto quale misura emergenziale tesa a fronteggiare le difficoltà dei soggetti più vulnerabili a soddisfare i propri bisogni primari a causa della situazione eccezionale determinata dall’emergenza da CoVid-19, attiene al diritto all’alimentazione, che rientra nel nucleo insopprimibile di diritti fondamentali spettanti necessariamente a tutte le persone in quanto tali e non può, perciò, essere negato allo straniero sprovvisto di permesso di soggiorno. È quanto si legge nel decreto del Tribunale di Roma del 21 aprile 2020, n. 12835

Con decreto emesso inaudita altera parte, ai sensi degli artt. 669 sexies, comma 2 c.p.c. e 700 c.p.c., il Tribunale di Roma ha riconosciuto il diritto del ricorrente e dell’intero suo nucleo familiare a percepire il “buono spesa” per famiglie in difficoltà introdotto dal Comune di Roma, in applicazione dell’Ordinanza del Capo della Protezione Civile del 29.3.2020.

Nel caso di specie, il ricorrente era giunto in Italia nel settembre del 2016 insieme alla compagna, cittadina filippina, e ai due figli di quest’ultima.

In seguito all’ultima gravidanza della compagna, il ricorrente era divenuto titolare di permesso di soggiorno per cure mediche rilasciato ai sensi dell’art. 19, comma 2, lett. d), D.Lgs. 286/1998, scaduto dopo il sesto mese di età del bambino.

A causa del sopraggiungere dell’emergenza sanitaria, il nucleo familiare, allo stato sprovvisto di permesso di soggiorno, si era trovato in una situazione di forte precarietà e indigenza, tanto da rientrare nel novero di quei soggetti per i quali il Comune di Roma, con apposito provvedimento adottato in attuazione delle misure emergenziali governative, aveva previsto il rilascio di un “buono spesa” per soddisfare le primarie esigenze alimentari.

Pertanto, in data 7.4.2020 il ricorrente aveva inoltrato al competente Municipio del Comune di Roma l’apposito modulo con la richiesta del buono spesa indicando la composizione del proprio nucleo familiare e il proprio stato di bisogno; il 14.4.2020 aveva inviato una seconda email specificando meglio la propria peculiare situazione – ovvero l’assenza di permesso di soggiorno e di residenza anagrafica – e ribadendo il proprio indirizzo di domicilio nonché la propria assoluta condizione di disagio economico.

Ciò premesso, il ricorrente riteneva che la mancanza del regolare permesso di soggiorno e conseguentemente della residenza lo escludessero di fatto dai potenziali beneficiari del buono spesa, producendo nei suoi confronti un’illegittima discriminazione.

Chiedeva, pertanto, che fosse adottato, con decreto inaudita altera parte, stante l’estrema urgenza, il provvedimento cautelare ritenuto più idoneo ad ammettere il ricorrente e l’intero nucleo familiare al beneficio del buono spesa per famiglie in difficoltà introdotto dal Comune di Roma.

Il provvedimento in rassegna ha – come detto in apertura – accolto l’istanza del ricorrente.

In particolare, il Giudice capitolino ha richiamato l’ordinanza del Capo del Dipartimento della Protezione Civile (OCDPC) n. 658/2020, recante “Ulteriori interventi di protezione civile in relazione all’emergenza relativa al rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”, con la quale è stato assegnato ai Comuni italiani un contributo per un totale di 400 milioni di Euro per misure urgenti di solidarietà alimentare.

Con la medesima OCPDC n. 658/2020 è stato attribuito all’ufficio dei servizi sociali di ciascun Comune il compito di individuare “la platea dei beneficiari ed il relativo contributo tra i nuclei familiari più esposti agli effetti economici derivanti dall'emergenza epidemiologica da virus Covid-19 e tra quelli in stato di bisogno, per soddisfare le necessità più urgenti ed essenziali con priorità per quelli non già assegnatari di sostegno pubblico” (art. 2, comma 6).

Con Determinazione Dirigenziale n. 913 del 31 marzo 2020, poi modificata e integrata con Determinazione n. 940 del 2 aprile 2020, il Dipartimento delle Politiche Sociali del Comune di Roma ha approvato l’Avviso Pubblico recante “Assegnazione del contributo economico a favore di persone e/o famiglie in condizione di disagio economico e sociale causato dalla situazione emergenziale in atto, provocata dalla diffusione di agenti virali trasmissibili (COVID-19)”, regolando i criteri e le modalità per la concessione dei buoni spesa.

Il Giudice ha, quindi, evidenziato che la residenza nel territorio comunale (ovvero l’impossibilità per i non residenti a raggiungere il proprio luogo di residenza) è un requisito per usufruire del buono spesa e ne ha tratto la conseguenza che i cittadini extracomunitari sprovvisti di permesso di soggiorno non possono usufruirne, essendo impossibilitati ad effettuare l’iscrizione anagrafica.

Così ricostruito il quadro delle disposizioni che regolano l’accesso al beneficio del “buono spesa”, il Giudice romano è passato ad un’analitica rassegna della giurisprudenza della Corte Costituzionale sull’estendibilità agli stranieri (anche se irregolarmente soggiornanti) dei diritti fondamentali riconosciuti dall’ordinamento.

Da tale rassegna si ricava che, in tema di diritti fondamentali, non sono ammissibili discriminazioni

E’ stato, infatti, affermato dal Giudice delle Leggi che lo straniero (anche irregolarmente soggiornante) gode di tutti i diritti fondamentali della persona umana; con particolare riguardo al diritto alla salute, esiste un “nucleo irriducibile”, che “quale diritto fondamentale della persona deve essere riconosciuto anche agli stranieri, qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme che regolano l’ingresso ed il soggiorno nello Stato”.

La giurisprudenza costituzionale, nell’evidenziare il carattere universalistico dei diritti umani fondamentali, afferma che il nucleo “minimo” di questi diritti non può essere violato e spetta a tutte le persone in quanto tali, a prescindere dalla regolarità del soggiorno sul territorio italiano.

Anche nella disciplina dei diritti sociali, nella quale pure la discrezionalità del legislatore è molto più ampia che nella disciplina dei diritti di libertà – perché sono richiesti l’uso e la allocazione di risorse scarse - il diverso trattamento deve essere giustificato da ragioni serie e non deve, comunque, violare quel nucleo di diritti fondamentali che, appunto, vengono definiti “inviolabili”.

Al riguardo, la Corte Costituzionale osserva che “è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione”.

Dunque, alla condizione della mera presenza sul territorio dello stato consegue il riconoscimento di un novero di prestazioni strettamente connesse alla tutela della vita umana.

Alle medesime conclusioni conducono anche i principi contenuti nelle fonti sovranazionali.

La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo prevede che tutti i diritti previsti nella CEDU devono essere garantiti dagli Stati parte, come stabilito all’art. 1, “ad ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione”.

Si pensi all’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), secondo cui la dignità umana è inviolabile.

L’art. 25 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 Dicembre 1948, sancisce che: “Ogni individuo ha il diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari, ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà”.

L’art. 11 del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali e il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, con protocollo facoltativo, adottati e aperti alla firma a New York rispettivamente il 16 e il 19 dicembre 1966, ratificati in Italia con legge n. 881/1977, dispone: “1. Gli Stati parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo ad un livello di vita adeguato per sé e per la propria famiglia, che includa un’alimentazione, un vestiario, ed un alloggio adeguati … . 2. Gli Stati parti del presente Patto, riconoscendo il diritto fondamentale di ogni individuo alla libertà dalla fame, adotteranno, individualmente e attraverso la cooperazione internazionale, tutte le misure ...”.

Nel caso di specie non si discute dell’accesso a prestazioni assistenziali “ordinarie”, ma dell’accesso ad una misura emergenziale tesa a fronteggiare le difficoltà dei soggetti più vulnerabili a soddisfare i propri bisogni primari a causa della situazione eccezionale determinata dall’emergenza sanitaria in atto.

Si tratta del diritto all’alimentazione che costituisce il presupposto per poter condurre un’esistenza minimamente dignitosa e la base dello stesso diritto alla vita e alla salute. Non vi è dubbio, quindi, che si tratta di quel nucleo insopprimibile di diritti fondamentali che spettano necessariamente a tutte le persone in quanto tali.

La finalità del “buono spesa” è proprio quella di far fronte alla situazione di grave indigenza nella quale si sono trovati i soggetti più vulnerabili a causa della situazione sanitaria in atto.

Il Giudice capitolino conclude, dunque, affermando che non possono essere poste condizioni, quale la residenza anagrafica, che di fatto limitano la platea degli aventi diritto e che, peraltro, non sono previste dalla norma che lo ha previsto.

Se senz’altro è possibile individuare un necessario legame con il territorio del comune tenuto all’erogazione, esso può e deve essere limitato alla abituale dimora dell’avente diritto.

Inoltre, i minori coinvolti nella descritta situazione di disagio economico e sociale corrono un serio e concreto pericolo legato alla sfera del loro diritto alla vita, all’integrità personale, all’alimentazione e al sano e completo sviluppo psicofisico.

Negare il buono spesa al nucleo familiare del ricorrente equivarrebbe, quindi, a negare un diritto fondamentale anche ai tre figli minori in ragione della condizione irregolare dei genitori, attualmente privi del permesso di soggiorno.

Il decreto in rassegna, se da un lato appare di assoluto pregio nella parte in cui offre una panoramica completa dello stato dell’arte della giurisprudenza costituzionale sul tema dei rapporti tra la condizione dello straniero e i diritti fondamentali garantiti dall’ordinamento, dall’altro, suscita almeno due spunti di riflessione in chiave critica.

Il primo punto, di carattere processuale, attiene alle condizioni che legittimano l’azione cautelare.

Orbene, nel caso di specie, risulta dagli atti che l’istanza per ottenere il beneficio è stata formulata in data 7.4.2020 e che, successivamente, in data 14.4.2020, è stata inviata una comunicazione, nella quale erano specificate la peculiare situazione del ricorrente – ovvero l’assenza di permesso di soggiorno e di residenza anagrafica – e l’assoluta condizione di disagio economico del nucleo famigliare.

L’istanza del 7.4.2020, come pure la successiva comunicazione del 14.4.2020, sono rimaste senza risposta da parte dell’Amministrazione comunale, che, allo stato, non ha ancora assunto in merito alcun provvedimento.

Deve ritenersi che, in base all’art. 2, comma 2, L. 7 agosto 1990, n. 241 sul procedimento amministrativo, l’Amministrazione abbia un termine di 30 giorni entro cui provvedere sull’istanza.

Decorso inutilmente il termine per la conclusione del procedimento, si formerà il silenzio-rifiuto, che assume il significato di mancato esercizio da parte della P.A. dell’obbligo di provvedere sull’istanza del privato.

Poiché, dunque, nella fattispecie in esame, la P.A. non ha ancora adottato un provvedimento espresso né si ritiene si sia verificato un silenzio significativo (di rigetto), si dovrebbe fortemente dubitare che si sia verificata una minaccia di un “pregiudizio imminente e irreparabile” al diritto ad ottenere il “buono spesa”, tale da giustificare il ricorso alla tutela cautelare.

Ove al quesito si desse risposta affermativa – accedendo, quindi, alla soluzione adottata dal Giudice capitolino – si potrebbe giungere a sostenere, allora, che sarebbero legittimati a ricorrere in sede cautelare tutti coloro i quali hanno presentato istanza al Comune per l’ottenimento del “buono spesa” e che, tuttavia, non hanno ancora avuto risposta dalla P.A.

Si tratta, a ben vedere, di una tesi, quest’ultima, che non appare seriamente proponibile, se solo si considera che, in questi casi, in mancanza di un provvedimento o un comportamento concretamente lesivo da parte della P.A., non sarebbe neppure configurabile un interesse a ricorrere.

La seconda considerazione attiene all’interpretazione delle disposizioni che regolano l’erogazione dei “buoni spesa”.

Orbene, la fonte normativa può essere rinvenuta nell’Ordinanza del Capo del Dipartimento della Protezione Civile n. 658/2020 del 29.3.2020.

Detta ordinanza non indica i requisiti per l’accesso alle provvidenze né tantomeno esclude dal novero dei potenziali beneficiari gli stranieri sprovvisti di permesso di soggiorno.

L’art. 2 dell’Ordinanza contiene, invece, al comma 1, lett. a) un riferimento alla “popolazione residente di ciascun comune” come criterio per la distribuzione delle risorse tra i diversi comuni.

L’art. 2, comma 6 demanda, poi, all’Ufficio dei servizi sociali di ciascun Comune il compito di individuare “la platea dei beneficiari ed il relativo contributo tra i nuclei familiari più esposti agli effetti economici derivanti dall’emergenza epidemiologica da virus Covid-19 e tra quelli in stato di bisogno, per soddisfare le necessità più urgenti ed essenziali con priorità per quelli non già assegnatari di sostegno pubblico”.

D’altro canto, neppure le determinazioni dirigenziali del Comune di Roma escludono dal novero dei potenziali beneficiari delle misure gli stranieri privi di permesso di soggiorno, limitandosi ad individuare tra i soggetti: a) i cittadini residenti nel territorio comunale; b) le persone non residenti, impossibilitate a raggiungere il proprio luogo di residenza.

Il concetto di “residenza” che viene più volte richiamato nei provvedimenti citati, non postula necessariamente la sussistenza di un regolare permesso di soggiorno.

Ed, infatti, in tal senso depone l’art. 3 D.P.R. 30.5.1989, n. 223 (Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente), secondo cui “Per persone residenti nel comune s'intendono quelle aventi la propria dimora abituale nel comune”.

Il permesso di soggiorno viene, invece, richiesto dalla normativa di settore ai fini dell’iscrizione dello straniero nei registri anagrafici (art. 7, comma 3 D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223).

Non si condivide, pertanto, la ricostruzione interpretativa offerta dal Giudice romano, secondo cui i cittadini extracomunitari non attualmente in possesso di permesso di soggiorno non potrebbero usufruire del “buono spesa”, essendo impossibilitati ad effettuare l’iscrizione anagrafica.

D’altra parte, è lo stesso Giudice ad affermare, in altra parte della motivazione, che “se senz’altro è possibile individuare un necessario legame con il territorio del comune tenuto all’erogazione, esso può e deve essere limitato alla abituale dimora dell’avente diritto”.

Esito:

Accoglimento

Riferimenti normativi:

OCDPC n. 658/2020 del 29.3.2020, recante “Ulteriori interventi di protezione civile in relazione all’emergenza relativa al rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”

Determinazione Dirigenziale n. 913 del 31 marzo 2020, poi modificata e integrata con Determinazione Dirigenziale n. 940 del 2 aprile 2020, del Dipartimento delle Politiche Sociali del Comune di Roma

Art. 27 Convenzione sui Diritti del Fanciullo, stipulata a New York il 20 novembre 1989

Art. 1 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea

Art. 24 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea

Art. 1 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo

Art. 25 Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948

Art. 11 Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali e il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, con protocollo facoltativo

Tribunale di Roma, decreto 21 aprile 2020, n. 12835.

Diritto di visita - Covid-19: la salute pubblica prevale sul diritto di visita del minore

Il Giudice, con provvedimento inaudita altera parte, ha ritenuto che gli incontri dei minori con genitori dimoranti in un Comune diverso da quello di residenza dei minori stessi, non realizzano affatto le condizioni di sicurezza e prudenza di cui al D.P.C.M. 9/3/2020 ed all’ancor più restrittivo D.P.C.M. 11/3/2020, come pure al D.P.C.M. 21/3/2020 e, da ultimo, al D.P.C.M. del 22/3/2020 (ad oggi si è aggiunto il D.P.C.M. 10 aprile 2020). Conseguentemente, nel bilanciamento degli interessi in gioco, ha ritenuto che quello alla salute pubblica prevalga comunque, sia sul diritto del minore alla bigenitorialità, sia sul diritto/dovere di visita dei genitori separati, soprattutto ove non sia verificabile se il minore venga esposto a rischio sanitario. Lo stabilisce il Tribunale di Vasto, decreto 2 aprile 2020.

Analisi del caso
Un genitore, dimorante in un Comune diverso da quello presso il quale si trova attualmente la figlia minore, ha presentato istanza per l’emissione di un provvedimento urgente ex art. 337 quinquies c.c. con cui disporre la collocazione presso di sé della figlia minore in un periodo ricompreso in quello oggetto di restrizioni a causa dell’emergenza sanitaria. A tal fine, il ricorrente sottolinea che tale richiesta sia giustificata dalla necessità di recuperare i fine settimana in cui si è trovato nella impossibilità di rispettare la calendarizzazione stabilita. La richiesta di tenere con sé la minore presso la propria residenza, si renderebbe necessaria anche perché il ricorrente lamenta serie difficoltà di instaurare collegamenti telefonici a causa delle resistenze e dell’ostruzionismo da parte della madre.

La soluzione

Il Tribunale, chiamato a pronunciarsi su tale istanza, ha innanzitutto ritenuto ammissibile l’adozione di un provvedimento cautelare inaudita altera parte in tema di revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli stante l’imminenza di un pregiudizio irreparabile che non può tollerare i tempi della giustizia ordinaria. Ha quindi rigettato la richiesta, disponendo tuttavia che il ricorrente possa avere colloqui telefonici riservati in videochiamata con la figlia minore, secondo un calendario puntualmente indicato nella parte dispositiva del decreto, diffidando la madre della bambina dal tenere comportamenti ostruzionistici che impediscano l’esercizio del diritto al colloquio telefonico.

Commento

Il provvedimento che qui si commenta affronta una problematica attuale, legata alla emergenza sanitaria del COVID-19. In particolare, affronta la delicata questione del rapporto tra diritto di visita e diritto alla salute ex art. 32 Cost., sia nell’interesse generale, sia nell’interesse del minore e dei genitori.

Lo stato emergenziale ha innanzitutto indotto il giudicante a ritenere ammissibile un provvedimento inaudita altera parte.

Considerando la fattispecie giuridica assistita dal fumus boni juris e ritenuto sussistere il pericolo di un pregiudizio imminente ed irreparabile a danno di un minore, infatti, il Tribunale ha pronunciato un provvedimento senza il preventivo intervento dell’altro genitore, sul presupposto che, evidentemente, il principio del contraddittorio sia cedevole rispetto all’urgenza (esigenza) di un provvedimento finalizzato comunque alla migliore salvaguardia dell’interesse del minore.

Il Tribunale, pertanto, valutata la gravità e l’urgenza della vicenda, ha ritenuto opportuno ricomprendere la fattispecie concreta in quella astratta descritta dall’art. 336 c.c., con ciò legittimando una tale forma di pronuncia anche in tema di revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli.

Nel caso di specie, infatti, si discute sostanzialmente su quando e in che modo il diritto/dovere di visita dei genitori possa essere esercitato a fronte della necessità di salvaguardare la salute pubblica e delle limitazioni alla circolazione delle persone, stabilite per le medesime ragioni sanitarie emergenziali.

Fermo restando che da più parti ci si è appellati al buon senso e, quindi, alla necessità che i genitori potessero raggiungere un accordo in merito, onde evitare ulteriori ripercussioni sui propri figli, laddove ciò non sia stato possibile, vari tribunali sono stati chiamati ad esprimersi sulla questione, anche sul presupposto, in parte non condivisibile, che un provvedimento giudiziario di affidamento dei figli non possa essere modificato da un DPCM che imponga un divieto di spostamento. Purtroppo occorre sottolineare che non si registra uniformità di provvedimenti giudiziari su tutto il territorio nazionale, probabilmente anche in conseguenza del susseguirsi di DPCM con limitazioni sempre più stringenti che hanno costretto il giudicante a spostare di volta in volta il baricentro degli interessi in gioco.

I vari DPCM hanno stabilito, infatti, una limitazione dei movimenti sempre più rigorosa su tutto il territorio nazionale, onde contenere il contagio, con conseguente sacrificio di tutti i cittadini.

Non è questa la sede per affrontare la questione della tecnica di normazione utilizzata dal legislatore in questo periodo emergenziale, dove si sono succediti in rapida sequenza, atti aventi forza di legge e provvedimenti legislativi in senso stretto, tali da creare un elevato stress al sistema delle fonti previsto dalla nostra Costituzione, nonché alle clausole di salvaguardia che ciascun articolo della stessa, relativo ai diritti fondamentali, contiene.

Appare necessario, tuttavia, trarre spunto dal citato provvedimento per poter affrontare il tema della recessività di taluni aspetti della genitorialità, rispetto all’emergenza in corso.

Il DPCM in vigore alla data di adozione del provvedimento in esame, aveva sancito il divieto di trasferirsi da un Comune all’altro (sul tema era intervenuta anche un’Ordinanza del Ministro della Salute in pari data), salvo per ragioni comprovate di lavoro, di salute o per ragioni di urgenza, sollevando così il problema come qualificare il diritto/dovere di visita dei genitori separati verso i propri figli.

A tale normazione, non propriamente chiara sul piano sistematico, erano seguiti alcuni chiarimenti attraverso i siti istituzionali governativi.

In particolare, sono state predisposte le c.d. faq (“gli spostamenti… sono consentiti, in ogni caso secondo le modalità previste dal giudice con i provvedimenti di separazione o divorzio”) che, tuttavia, non sono state sufficienti a sopire il dubbio sul punto.

Il Tribunale di Vasto ha condivisibilmente optato per un decreto fortemente limitativo, in conformità a Corte d’Appello di Bari, 26 marzo 2020, dallo stesso richiamato.

Nel bilanciamento dei diversi diritti coinvolti, diritto alla salute pubblica, diritto alla bigenitorialità del minore e diritto/dovere di visita del genitore, il decreto in commento ha di fatto sospeso il diritto/dovere di visita, nei limiti dell’incontro c.d. “in presenza”, sostanzialmente per tre ragioni, poiché nel caso di specie: 1. il padre è rientrato nella propria residenza da una città ad alto tasso di contagio virale; 2. non è dimostrato che il padre abbia rispettato le prescrizioni imposte dalla normativa vigente, tra cui l’isolamento domiciliare fiduciario e 3. non sarebbe emerso se nell’abitazione di destinazione fossero presenti altre persone oltre all’istante. Non possono non condividersi tali assunti se solo si pensa che tra i doveri rientranti nella responsabilità genitoriale viene annoverato anche e soprattutto quello di tutelare la salute del minore. Purtuttavia, il Tribunale di Vasto ha salvaguardato comunque il diritto all’incontro, seppure virtuale, stabilendo colloqui telefonici riservati in videochiamata con la figlia minore, secondo un calendario puntualmente indicato, e diffidando la madre dal tenere comportamenti che possano limitare o impedire tale diritto.

Certamente, il diritto di visita “in presenza” e strictu sensu inteso è solo sospeso. Ciò non esclude, infatti, che al termine dell’emergenza sanitaria, venga posta fine alla sospensione e tale diritto tornerà certamente a riespandersi, con la possibilità di una sorta di “recupero” del tempo in cui è stato sacrificato seppur nei limiti delle eventuali nuove disposizioni di contenimento tempo per tempo vigenti.

In attesa che il legislatore intervenga per chiarire definitivamente la legittimità degli spostamenti per l’esercizio del diritto di visita ai figli, si segnala un orientamento difforme a quello in commento ad opera del Tribunale di Busto Arsizio, decreto 3 aprile 2020, favorevole ad una interpretazione delle disposizioni normative tale da ricomprendere anche gli obblighi di visita dei figli sanciti da provvedimenti giurisprudenziali. Tale orientamento si basa anche sulla considerazione che l’ultimo modello di autocertificazione elaborato dal Ministero dell’Interno ha inserito tra i motivi di necessità (o di urgenza?) proprio gli “obblighi di affidamento dei minori”. Il dubbio su tale impostazione resta, soprattutto ove si consideri che proprio una certa flessibilità negli spostamenti e negli incontri tra le persone abbia determinato un aumento esponenziale della diffusione del contagio. Senza con ciò dimenticare che, almeno per il momento, l’autocertificazione non ancora assurge a fonte del diritto.

La natura del provvedimento (decreto), tuttavia, non ha consentito un approfondimento sul tema della limitazione alla libertà di movimento ex art. 16 Cost. Probabilmente la giurisprudenza avrà modo di approfondire tali aspetti al fine di chiarire la portata effettiva dei limiti e della loro predominanza rispetto ad altri diritti costituzionalmente garantiti.

Le norme di conversione dei decreti legge adottati dal Governo, paiono intervenire espressamente su questi temi, ma in ogni caso sarà necessario ricorrere ad interpretazioni costituzionalmente orientate al fine di garantire un’uniformità nazionale su temi che involgono aspetti estremamente delicati della vita di relazione.

Riferimenti normativi:

Art. 16 Costituzione

Art. 32 Costituzione

Art. 336 c.c.

Art. 337 ter c.c.

Art. 337 quinquies c.c.

dpcm 22 marzo 2020


Tribunale di Vasto, decreto 2 aprile 2020

Crisi d’impresa - Emergenza Covid-19: rinviata al 1° settembre 2021 l’entrata in vigore del Codice della Crisi d’Impresa

Invero, la bozza di decreto correttivo al Codice della Crisi, approvato dal Consiglio dei Ministri il 13 febbraio 2020, prevedeva all’art. 41 che gli obblighi di segnalazione provenienti sia dall’organo di controllo societario o del revisore e diretto verso l’OCRI (art. 14, comma 2) sia dai creditori qualificati circa le esposizioni debitorie rilevanti (art. 15) operassero unicamente a partire dal 15 febbraio 2021 per le imprese che negli ultimi due esercizi non avessero superato alcuno dei seguenti limiti: attivo patrimoniale o ricavi superiori ai 4 milioni o dipendenti impiegati nell’esercizio in misura maggiore di 20 unità. In seguito, tuttavia, all’epidemia, il d.l. 2 marzo 2020, n. 9 (“Misure urgenti per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”) ha espressamente stabilito all’art. 11 che “l’obbligo di segnalazione di cui agli artt. 14, comma 2, e 15 del Codice della Crisi opera a decorrere dal 15 febbraio 2021”.

È evidente che in una situazione in cui l’intero tessuto economico mondiale risulta colpito da una gravissima forma di crisi, gli indicatori della crisi non potrebbero svolgere alcun concreto ruolo selettivo, pregiudicando anzi la propria ratio, vale a dire quella di intercettare tempestivamente lo stato di crisi, tramite un sistema di segnalazione tempestiva e intervenire prima che tale situazione si trasformi in insolvenza irreversibile, al fine di salvaguardare la continuità aziendale. Nel contesto generale di grave crisi economica sarebbe infatti inevitabilmente pregiudicata la possibilità di identificare le imprese capaci di proseguire l’attività o che necessitano di avviare un piano di ristrutturazione.

Il rinvio dell’entrata in vigore dell’intero nuovo impianto normativo si giustifica, inoltre, alla luce della necessità di rispettare l’equilibrio sistematico del Codice.

Esso, invero, prevede una disciplina più severa in relazione all’accesso al concordato preventivo, la quale si giustifica proprio a fronte del sistema delle misure di allerta, la cui sperata efficienza fa da contrappeso ad una maggiore rigidità in termini di accesso allo strumento concordatario. Pertanto, sarebbe stata inevitabilmente pregiudicata l’armonia e la “razionalità” del nuovo Codice qualora, operandosi un differimento “a geometria variabile”, alla mancata entrata in vigore delle misure di allerta avesse corrisposto una – a quel punto – ingiustificata limitazione relativa al concordato preventivo, con una prospettiva liquidatoria che porterebbe soltanto ad una “svendita” del patrimonio.

Inoltre, atteso il prevedibile pesante impatto dell’emergenza sulla solvibilità delle imprese, attesa la possibile crisi degli investimenti e, in generale, delle risorse necessarie per procedere a ristrutturazioni delle imprese, il nuovo Codice della crisi potrebbe risultare scarsamente compatibile con la primaria finalità della certezza del diritto. La disciplina della legge fallimentare, sedimentata da una giurisprudenza in vari profili consolidata offre certamente maggiore stabilità agli operatori rispetto ad uno strumento che contempla categorie del tutto inedite e che si espone inevitabilmente a dubbi interpretativi e procedurali.

L’auspicio è che nel settembre 2021 sia superato il “picco” della crisi economica che, a causa di un ridotto ingresso di liquidità, inevitabilmente colpirà anche imprese sane, basate su modelli fondamentalmente solidi, permettendo così, in seguito ai necessari interventi degli organismi sovranazionali, di avere un contesto economico “fisiologico” che possa consentire al nuovo Codice della crisi di operare con concrete possibilità di successo.

Riferimenti normativi:

d.lgs. n. 14/2019

d.l. 2 marzo 2020, n. 9

Emergenza Coronavirus - Coronavirus: gli obblighi dell’amministratore di condominio

L’emergenza epidemiologica da Covid-19 ha imposto a tutti di rivisitare il proprio comportamento quotidiano, soprattutto in relazione agli adempimenti che la legge dispone di effettuare, a volte entro termini tassativi. Il legale rappresentante della collettività condominiale è vincolato da numerosi obblighi legislativamente disposti, la violazione dei quali può comportare sia la revoca del suo incarico sia una sanzione amministrativa o addirittura penale a suo esclusivo carico. Non sempre la normativa dettata al fine di superare positivamente l’attuale situazione di crisi prende nella dovuta considerazione le esigenze di coloro che vivono in un condominio.

di Gian Vincenzo Tortorici - Avvocato in Pisa
Gli artt. 2 e 32 Cost. garantiscono i diritti inderogabili della solidarietà sociale e della salute, intesa questa anche quale interesse della collettività.

La Corte di Cassazione con la sentenza 13 febbraio 2020, n. 3691 ha da ultimo precisato che la garanzia della dignità personale deve ricomprendere anche la salute psichica della persona oltre a quella fisica. Questo concetto si interseca inequivocabilmente con quello della privacy; il Comitato europeo per la protezione dei dati con nota del 19 marzo 2020 ha precisato che le norme del RGPD del 2016 non ostacolano l’adozione di misure per il contrasto della pandemia.

Del resto la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, seppur con riferimento all’art. 7 della Direttiva 95/46, sostanzialmente non modificato dalla successiva disposizione citata, ha autorizzato la comunicazione dei dati personali se si persegue la necessità di un legittimo interesse dei terzi e sempre che la libertà del singolo alla protezione dei suoi dati non prevalga sul legittimo interesse perseguito dedotto (Corte Giustizia UE 11 dicembre 2019 n. 708 e Corte Giustizia UE 16 gennaio 2019, n. 496).

Inoltre la nota del Comitato precisa che il datore di lavoro può legittimamente trattare i dati del dipendente per garantire la sicurezza sul luogo di lavoro e/o il perseguimento dell’interesse pubblico inerente al controllo della malattia e ad altra minaccia di natura sanitaria, notiziando preventivamente il lavoratore dell’iniziativa che intende adottare.

D’altronde la lettera c) del secondo comma dell’art. 9 del precitato Regolamento consente il trattamento dei dati personali quando è necessario tutelare un interesse vitale dell’interessato o di altra persona fisica, qualora l’interessato versi nell’incapacità fisica di prestare il proprio consenso.

Ne deriva che il trattamento dei dati deve essere conforme ai principi di trasparenza, proporzionalità e coerenza [si veda l’intervista al Garante dr. Soro del 19 marzo 2020], bilanciando la limitazione alla privacy del soggetto “coinvolto” con l’interesse alla salute della collettività garantito, come dedotto, dalla Costituzione.

Considero che evitare il contagio e, quindi, la diffusione del virus, sia un interesse legittimo della popolazione italiana in qualsiasi sua manifestazione; la tutela della salute deve essere garantita in ogni comunità, anche piccola, dalla famiglia, e, infatti, vengono posti in quarantena i familiari delle persone colpite dal virus, al condominio. Non solo, se la tutela alla salute si estende ai turbamenti psichici delle persone, anche la paura del contagio può incidere sulla salute di costoro.

Recependo il dettato giurisprudenziale in tema di danni da cose in custodia e di incidenti sul lavoro, reputo che si possa prevedere una responsabilità, a carico di chi ne ha il potere, per non aver attuato tutte le misure di cautela, pur non espressamente imposte dalla legge, richieste dall’esistenza di condizioni pericolose per l’ambiente e per chi lo frequenta, soprattutto se il pericolo sia superabile con l’adozione di comportamenti tali da evitare l’evento dannoso in ottemperanza al principio di solidarietà individuato dall’art. 2 Cost..

Ritengo, conseguentemente, che l’amministratore:


1) nella sua qualità di datore di lavoro, debba segnalare ai condomini e ai titolari di diritti personali di godimento, iscritti nel Registro dell’anagrafe condominiale, che il prestatore di lavoro del Condominio è affetto da Covid-19, preavvertendolo, purché ufficialmente accertato, preavvertendolo, affinché possano adottare tutte le cautele necessarie ad evitare il contagio e, contemporaneamente, debba provvedere a sanificare tutte le parti comuni dell’edificio.

2) possa segnalare ai residenti nello stabile da una parte che si è/sono verificati dei casi di persone accertate positive al virus Covid-19, senza indicarne i nominativi, sempre che i primi non ne siano già a conoscenza per altra via, e che immediatamente provvede alla sanificazione di tutte le cose condominiali.


Premesso quanto sopra dedotto inerente alla tematica della privacy, numerose altre sono le questioni che riguardano l’attività dell’amministratore di condominio, che ai sensi della L. 14 gennaio 2013, n. 4 è un professionista intellettuale; peraltro è necessario che possegga tutti i requisiti di moralità e di professionalità prescritti dall’art. 71 bis disp. att. cod. civ. e in particolare l’attestato di superamento dell’esame per l’aggiornamento annuale disposto dal D. M. 13 agosto 2014, n. 140, che, da ultimo, è riferito all’annualità 2018/2019.

In questa fattispecie l’amministratore di condominio può svolgere la propria attività anche recandosi al proprio studio, seppur ubicato in altro Comune, soltanto per le attività che non riesca a svolgere correttamente nella propria abitazione, per esempio contattare un manutentore, come precisato nella Faq del Governo del 15 marzo 2020. Se sia indispensabile, l’amministratore può chiedere che alcuni suoi collaboratori si rechino in ufficio, purché tra le loro postazioni di lavoro sussista almeno la distanza di un metro.

Ma l’amministratore potrebbe avere la necessità di recarsi presso gli edifici amministrati, per esempio per verificare un guasto ad un impianto; in questo caso deve indicare nell’autodichiarazione, che può essere richiesta dalle Forze dell’Ordine durante il suo spostamento, l’indirizzo dei condominii interessati al suo sopralluogo. Del resto l’amministratore effettua un utile servizio a tutela dei suoi amministrati, che sono consumatori e cittadini dello Stato.

Tra gli obblighi dell’amministratore vi sono quelli di predisporre i rendiconti consuntivo e preventivo e di farli approvare dall’assemblea, nonché di mantenere lo stabile, latu sensu inteso, in buone condizioni di conservazione.

Per quanto concerne la redazione dei rendiconti, l’amministratore può provvedervi e inviarli, riservandosi di convocare l’assemblea appena sarà legalmente possibile; può anche richiedere un acconto per fare fronte alle spese necessarie, per esempio saldare il premio della polizza di assicurazione o pagare lo stipendio del portiere.

Le assemblee non possono essere convocate per evitare gli assembramenti di persone e, anche, perché potrebbe esservi un impedito alla partecipazione di un condomino, per esempio perché residente in un Comune differente da quello in cui si dovrebbe tenere l’adunanza o perché posto in quarantena presso la propria abitazione; si potrebbe ipotizzare l’adozione degli strumenti tecnologici che consentano di programmare assemblee svolte in remoto, ma sarebbe obbligatorio, per evitare successive impugnazioni, che tutti i condomini, neanche uno escluso, abbiano la possibilità di collegarsi in videoconferenza e che il presidente dell’assemblea abbia la potenzialità di accertare costantemente che tutti siano sempre collegati e che, quindi, nessuno si allontani dal proprio computer, condizioni queste che è molto improbabile si possano verificare.

D’altronde la stessa Faq sopra citata esclude la possibilità che l’amministratore convochi le assemblee.

A proposito di assembramenti, l’amministratore può consigliare ai condomini un uso limitato e alternato dell’ascensore.

Per quanto inerisce alle manutenzioni dell’immobile, qualora queste siano urgenti e indifferibili, può disporne l’esecuzione ai sensi dell’art. 1135, II comma, cod. civ.; in caso contrario deve rimettere la decisione alla prima assemblea utile, come ut supra osservato.

Considerata la pericolosità del virus del quale si tratta, è opportuno trascrivere l’articolo uno del D. M. 7 luglio 1997, n. 274, per quanto qui occorra:


a) sono attività di pulizia quelle che riguardano il complesso di procedimenti e operazioni atti a rimuovere polveri, materiale non desiderato o sporcizia da superfici, oggetti, ambienti confinati ed aree di pertinenza;

b) sono attività di disinfezione quelle che riguardano il complesso dei procedimenti e operazioni atti a rendere sani determinati ambienti confinati e aree di pertinenza mediante la distruzione o inattivazione di microrganismi patogeni;

c) sono attività di disinfestazione quelle che riguardano il complesso di procedimenti e operazioni atti a distruggere piccoli animali, in particolare artropodi, sia perché parassiti, vettori o riserve di agenti infettivi sia perché molesti e specie vegetali non desiderate;

Omissis

e) sono attività di sanificazione quelle che riguardano il complesso di procedimenti e operazioni atti a rendere sani determinati ambienti mediante l'attività di pulizia e/o di disinfezione e/o di disinfestazione ovvero mediante il controllo e il miglioramento delle condizioni del microclima per quanto riguarda la temperatura, l'umidità e la ventilazione ovvero per quanto riguarda l'illuminazione e il rumore.


La sanificazione è, conseguentemente, una attività da effettuare per ultima allo scopo di rendere un ambiente ancora più sicuro per la presenza umana.

Il Ministero della Salute ha recentemente precisato che i virus possono persistere sulle superfici inanimate allorché si verificano le condizioni di cui alla precitata lettera e), ma possono essere efficacemente inattivati con adeguate procedure di sanificazione; ha consigliato di prestare particolare attenzione alle superfici toccate di frequente dalle persone, quali muri, porte e finestre e di controllare che tutte le relative operazioni siano condotte da addetti che indossino adeguati dispositivi di protezione Individuali (DPI) e utilizzino prodotti certificati.

L’amministratore deve preoccuparsi, pertanto, di far effettuare scrupolosamente la pulizia delle parti comuni dell’edificio e degli impianti in esso installati, specificatamente l’ascensore, e ricorrere alla sanificazione, nel caso la ritenga opportuna a maggior garanzia degli abitanti, con le ditte specializzate che posseggano i requisiti prescritti dall’articolo due del summenzionato D. M. 274/1997.

Le imprese e i loro dipendenti sono terzi rispetto ai condomini e, coerentemente a quanto prescritto dalla normativa sulla privacy, l’amministratore non può riferire loro se all’interno dello stabile si siano o non si siano verificati contagi, senza l’autorizzazione scritta di tutti gli abitanti che sono i diretti interessati di tale informazione.

Riferimenti normativi:

L. 14 gennaio 2013, n. 4

Art. 71 bis disp. att. cod. civ.

D. M. 13 agosto 2014, n. 140

Diritto di visita - Le visite del padre al figlio in comuni diversi sono sospese durante l’emergenza Covid-19

Il diritto - dovere dei genitori e dei figli minori di incontrarsi, nell’attuale momento emergenziale, è recessivo rispetto alle limitazioni alla circolazione delle persone, legalmente stabilite per ragioni sanitarie, a mente dell’art. 16 della Costituzione, ed al diritto alla salute, sancito dall’art. 32 Cost. Quanto stabilito dal Tribunale di Bari, decreto 26 marzo 2020.

di Antonio Scalera - Consigliere Corte d’Appello

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI:

Conformi:

Non si rilevano precedenti

Difformi:

Trib. Milano, 11.3.2020


Con il provvedimento in rassegna, emesso inaudita altera parte, il Tribunale di Bari, in accoglimento di apposita istanza, ha sospeso gli incontri tra il padre ed il figlio minore, collocato presso la madre e residente in un comune diverso da quello di residenza paterna.

A fondamento della sospensione il Tribunale ha osservato che le misure restrittive, di recente adottate dal Governo per contrastare l’epidemia da Coronavirus, si prefiggono di limitare, in modo “rigoroso” e “universale”, i movimenti sul territorio, con conseguente sacrificio di tutti i cittadini ed anche dei minori. In particolare, ad avviso del Tribunale, non è possibile verificare se il minore, durante l’incontro con l’altro genitore, sia stato esposto a rischio sanitario; ciò costituisce, quindi, un pericolo per coloro che il minore stesso ritroverà al rientro presso l’abitazione del genitore collocatario. Inoltre, il Tribunale statuisce che, nell’attuale momento emergenziale, il diritto - dovere dei genitori e dei figli minori di incontrarsi è recessivo rispetto alle limitazioni alla circolazione delle persone, imposte per ragioni sanitarie. Sulla base di tali argomentazioni il Tribunale ritiene necessario interrompere gli incontri padre-figlio e dispone che il diritto di visita sia esercitato soltanto con modalità a distanza (videochiamata Skype) secondo il calendario già stabilito.

Il breve provvedimento in rassegna induce ad alcune riflessioni. Anzitutto, la conclusione assunta dal Tribunale appare, in prima battuta, rispettosa del dettato dell’art. 1, lett. b) del D.P.C.M. 22 Marzo 2020, secondo cui “è fatto divieto a tutte le persone fisiche di trasferirsi o spostarsi, con mezzi di trasporto pubblici o privati, in un comune diverso rispetto a quello in cui attualmente si trovano, salvo che per comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza ovvero per motivi di salute”. Tale disposizione ricalca pedissequamente quella adottata con ordinanza emessa in pari data dal Ministro della Salute, di concerto con il Ministro dell’Interno.

E’, peraltro, opportuno precisare che la disposizione in esame, a mente dell’art. 2, comma 1 del citato D.P.C.M., ha efficacia fino al 3 Aprile 2020. Ora, l’esercizio del diritto di visita – salvo che non ricorrano motivi di “assoluta urgenza”, tali da giustificare lo spostamento del padre verso il figlio (o viceversa) in un comune diverso da quello in cui attualmente si trovano – non pare potersi ricondurre ad alcuna delle ipotesi eccezionali sopra indicate. Sotto questo profilo, dunque, la decisione merita di essere condivisa, giacché, nella fattispecie in esame, l’esercizio di visita implica lo spostamento di persone da un comune all’altro, spostamento che non è consentito dalla normativa citata sino al 3 Aprile 2020.

Tuttavia, non va trascurato che, proprio sul sito istituzionale governo.it (aggiornato al 28 Marzo 2020), nella sezione dedicata alle “domande frequenti sulle misure adottate dal Governo”, si legge che “gli spostamenti per raggiungere i figli minorenni presso l’altro genitore o comunque presso l’affidatario, oppure per condurli presso di sé, sono consentiti, in ogni caso secondo le modalità previste dal giudice con i provvedimenti di separazione o divorzio”.

Tale indicazione – ove si voglia dare coerenza interpretativa al variegato quadro normativo emergenziale – deve intendersi riferita alle visite che richiedono spostamenti all’interno del medesimo comune, non essendo, invece, consentiti, salvo ipotesi eccezionali, spostamenti da un comune all’altro. A conclusioni difformi è, invece, pervenuto il Tribunale di Milano, con decreto dell’11 Marzo 2020, in una fattispecie in parte sovrapponibile a quella in esame.

La pronuncia del Giudice milanese era stata sollecitata dalla richiesta del difensore della madre di rientro dei minori presso il domicilio di Milano. In quel caso il Tribunale ambrosiano ha ritenuto che le previsioni di cui all'epoca vigente art. 1, comma 1, lett. a), del D.P.C.M. 8 Marzo 2020 non fossero preclusive dell'attuazione delle disposizioni di affido e collocamento dei minori.

La disposizione richiamata dal Giudice milanese prevedeva che “allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus COVID-19 nella regione Lombardia e nelle province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio nell'Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso e Venezia, sono adottate le seguenti misure: a evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori di cui al presente articolo, nonche' all'interno dei medesimi territori, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessita' ovvero spostamenti per motivi di salute. E' consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza”. Tale disposizione, dunque, espressamente consentiva – come, del resto, è stato puntualmente osservato dal Giudice milanese - il rientro presso il domicilio di coloro che, al momento dell’entrata in vigore del precetto, si trovavano altrove.

La disposizione è stata, successivamente, modificata dal D.P.C.M. del 22 Marzo (applicato dal Tribunale di Bari), che ha soppresso l’inciso “E’ consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza”. Dunque, l’apparente difformità delle conclusioni assunte nei due provvedimenti giudiziali si spiega in ragione delle diverse disposizioni normative applicate, le quali si sono succedute rapidamente nel tempo, in parallelo all’aggravarsi del fenomeno epidemico.

Riferimenti normativi:

Cost., art. 16

Cost., art. 32

Cod. Civ., art. 337 ter

D.P.C.M. 22 Marzo 2020

Tribunale di Bari, decreto 26 marzo 2020



AggiornamentI

Toglie le sponde al letto in ospedale, il marito scende, cade e poi muore: è omicidio colposo

Non interrompe il nesso causale il tardivo e maldestro soccorso prestato dal personale sanitario allorché l’evento morte configuri il sostanziarsi del medesimo rischio cagionato dalla condotta colposa dell’agente rispetto alla quale la cattiva risposta medica può al più costituire concausa priva di autonomia (Cass. pen. sez. IV, sentenza n. 11536/2020).

L’assecondare le pericolose intemperanze di un paziente ospedaliero, aiutandolo ad eludere le prescrizioni impostegli dal personale sanitario, costituisce ragione di responsabilità laddove si verifichi l’evento che le restrizioni stesse sono volte ad escludere.

Così ha deciso la Quarta Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, chiamata a giudicare la responsabilità di una donna che, per consentire all’anziano marito paziente di ospedale di raggiungere i bagni del nosocomio, aveva rimosso le sbarre di protezione del letto ed aveva così consentito che il coniuge scendesse dal letto stesso, cadesse rovinosamente a terra e riportasse lesioni di tale gravità da successivamente cagionarne la morte.

In particolare, era risultato dal processo di merito che lo stesso allestimento delle paratie era stato motivato dal concreto pericolo che il paziente provasse a mettersi in piedi senza esserne in grado e che perciò incorresse nel susseguente pericolo di cadere in terra, poi concretamente verificatosi per via della collaborazione della moglie.

Di contro, la difesa aveva dedotto – in sede di ricorso per cassazione – che nessuna responsabilità si sarebbe dovuta attribuire all’imputata, posto che ella non avrebbe fatto altro che intervenire in una situazione di dilatata assenza del personale sanitario, senza neppure aver compreso il divieto di alzarsi posto a carico di suo marito.

Ciò che infatti era evidenziato dalla donna a ragione delle proprie doglianze era proprio il comportamento complessivo del personale ospedaliero sia nel periodo precedente, sia in epoca successiva rispetto alla ferale caduta anzi riferita: a detta della stessa, infatti, era stata proprio la costante assenza del personale sanitario a costringerla ad accudire autonomamente il proprio coniuge, assumendo l’iniziativa di consentirgli di andare in bagno senza essere resa edotta delle controindicazioni a cui con ciò poteva andare incontro.

Ancor più grave, ad avviso della difesa, era stato il fatto che l’intervento medico fosse avvenuto ben nove ore dopo la caduta, a seguito di un iter costellato di inadempimenti ed omissioni del personale ospedaliero.

Tali fattori di altrui responsabilità, ad avviso della ricorrente, non potevano che indurre ad escludere la responsabilità dell’imputata sia sotto il profilo dell’elemento oggettivo, sia sotto l’aspetto dell’elemento psicologico del reato.

Non incorrerebbe in colpa l’agente, in quanto non è in capo ad ella – bensì al personale sanitario – che grava l’obbligo di predisporre ogni misura volta ad impedire il determinarsi di fattori di rischio tali da porre in pericolo la salute e la stessa vita del paziente.

E sarebbe con ciò il personale sanitario a dover rispondere del rispetto delle prescrizioni laddove non abbia svolto la dovuta attività di verifica mediante la propria vigile presenza nella corsia né abbia quanto meno fornito al parente del paziente in cura le minime istruzioni su come gestire la propria attività di assistenza al malato.

Ma non solo. Deduzione della ricorrente era altresì che il decesso del paziente non si sarebbe prodotto qualora ad egli fosse stata recata tempestiva e diligente assistenza a seguito della caduta: i ritardi e le omissioni occorse, al contrario, avrebbero consentito il degenerare della situazione tanto da intervenire a spezzare il nesso eziologico tra le condotte dell’imputata e l’evento morte, costituendo in definitive cause autonome e da sole sufficienti a determinare il decesso del paziente.

I Giudici di legittimità hanno respinto i predetti argomenti dichiarandoli infondati: risultava infatti dagli atti del merito che fosse certo che i sanitari avessero detto all’imputata che il marito non avrebbe per alcuna ragione dovuto alzarsi dal letto.

Ella, piuttosto che assumere iniziative in autonomia, avrebbe dovuto segnalare agli operatori l’esigenza del marito in modo tale che fossero questi ultimi a valutare se e come porre in essere le misure volte a consentire al paziente di espletare le proprie necessità fisiologiche.

In altri termini, il rimuovere di autonoma iniziativa una barriera posta a tutela del paziente ha costituito la violazione di un’elementare regola di prudenza, indipendentemente dal fatto che il personale sanitario avesse o meno svolto con la dovuta cura le proprie funzioni di vigilanza.

Per quanto attiene la sussistenza del nesso eziologico tra l’azione dell’imputata e il decesso di suo marito, la Corte di Cassazione ha ribadito il radicato orientamento per cui, anche laddove nuova causa sopravvenga, affinché essa possa dirsi idonea ad interrompere il nesso causale è necessario che inneschi un rischio nuovo o comunque radicalmente esorbitante rispetto a quello determinato dall’agente.

Posto che dalla caduta del marito era scaturita la frattura del femore da cui era successivamente conseguita la morte della vittima, le eventuali cattive risposte mediche al problema non hanno determinato alcun pericolo autonomo o esorbitante rispetto al rischio del decesso strettamente collegato con la condotta della moglie e perciò un’eventuale responsabilità del personale sanitario potrebbe al più essere introdotta in termini di concorso.

In definitiva, la Suprema Corte di Cassazione ha per questi motivi confermato l’impugnata sentenza di merito, così definitivamente dichiarando la penale responsabilità dell’imputata in ragione del commesso omicidio colposo.

Tuttavia, i Giudici di legittimità hanno accolto l’ultima non certo banale doglianza della ricorrente cui la Corte d’Appello aveva negato il beneficio della sospensione condizionale della pena nonostante le avesse comminato la sanzione della reclusione per un periodo inferiore ai due anni e nonostante la propria incensuratezza.

Ciò sulla scorta di un giudizio prognostico espresso nei seguenti termini ipotetici: “non è lecito né possibile escludere che in futuro non commetta altri reati”.

La Corte di Cassazione, sul punto, ha ritenuto ribadire che è precipuo onere del giudicante specificare quali concreti elementi fondino una prognosi – positiva o negativa – circa la successiva commissione di altri reati da parte del condannato e per questo ha dichiarato l’annullamento dell’impugnata sentenza limitatamente alla mancata concessione del beneficio in parola, rinviando per il punto alla Corte d’Appello competente.


Cassazione penale, sezione IV, sentenza 7 aprile 2020, n. 11536

Stupefacenti: la coltivazione “domestica” non è più reato

IIl reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all'ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore (Cass. pen., SS.UU., sentenza 16 aprile 2020 n. 12348).


La soluzione

Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore.


I precedenti difformi

Cass. pen. Sez. Unite, sentenza 10/07/2008, n. 28605 e Cass. pen. Sez. Unite, sentenza 10/07/2008, n. 28606

Ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, spetta al giudice verificare in concreto l'offensività della condotta ovvero l'idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile. (Conforme, Sez. U. 24 aprile 2008, Valletta, non massimata). (Vedi Corte cost. n. 360 del 1995 e n. 296 del 1996) – RV 239921 – 01

Costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale. (Conforme, Sez. U. 24 aprile 2008, Valletta, non massimata). (Vedi Corte cost. n. 360 del 1995 e n. 296 del 1996). – RV 239920 - 01


La questione

Le Sezioni unite, superando la precedente giurisprudenza “di rigore” [sintetizzabile nel principio che la coltivazione è sempre penalmente rilevante, quale che ne sia la dimensione e prescindendo dalla destinazione personale del ricavato], hanno affermato che non commette il reato di cui all’articolo 73 del dpr n. 309 del 1990 chi coltiva per uso domestico piante da stupefacente in numero modesto, tale da accreditare una destinazione dello scarsissimo principio attivo ricavabile ad un uso esclusivamente personale del coltivatore.

In effetti, finora le stesse Sezioni unite si erano espresse in modo diametralmente diverso.

E’ nota, infatti la diversa lettura interpretativa fornita in precedenza dalle Sezioni unite, nelle sentenze 24 aprile 2008, Di Salvia e 24 aprile 2008, Valletta, secondo cui costituiva condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando fosse realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale, essendo irrilevante ai fini della sussistenza del reato la distinzione tra coltivazione tecnico-agraria e coltivazione domestica.

Secondo questa impostazione, lo spazio per una pronuncia liberatoria poteva semmai aversi solo in presenza di condotte di coltivazione che risultassero concretamente “inoffensive”, spettando al giudice di merito verificare se la condotta di coltivazione accertata fosse in ipotesi assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto e dovendosi in proposito considerarla “inoffensiva” [solo] se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non risultasse idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile.

Tale impostazione di rigore era seguito dalla giurisprudenza assolutamente prevalente e veniva spiegata con il rilievo che l’ attività della coltivazione in sé, in difetto delle prescritte autorizzazioni, è da ritenere sempre potenzialmente diffusiva della droga, tanto che l’offensività della condotta non sarebbe neppure esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione delle piante, neppure quando risulti l’assenza di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ove gli arbusti, conformi al tipo botanico prescritto, siano prevedibilmente in grado di rendere, all’esito di un fisiologico sviluppo, quantità significative di prodotto dotato di effetti droganti.

Gli argomenti delle Sezioni Unite

Ora finalmente le Sezioni unite rinnegano la precedente impostazione interpretativa e sposano tout court la tesi dell’irrilevanza penale della coltivazione “domestica”, che riconduce ad equità il sistema.

In proposito, la Corte non rinnega il principio ribadito anche dalla Corte costituzionale [di recente, con la sentenza n. 109 del 2016] secondo cui non è irragionevole la scelta del legislatore di punire penalmente sempre la condotta di coltivazione, perché è condotta di per sé pericolosa in quanto idonea ad arricchire la provvista esistente di materia prima e quindi a creare potenzialmente più occasioni di spaccio.

Ma un conto è l’applicabilità di tale principio alla coltivazione vera e propria [c.d. tecnica- agraria; disciplinata dall’articolo 27 e seg. del dpr n. 309 del 1990], qualificata dall’apprezzabilità delle dimensioni e della finalità commerciale, altra questione è quella dell’ estensione della medesima disciplina alla mera coltivazione domestica, di minime dimensioni, qualificata non solo, appunto, dalla modestia delle dimensioni, ma anche dal suo svolgimento in forma domestica e non in forma industriale, dalla rudimentalità delle tecniche utilizzate, dallo scarso numero di piante, dalla mancanza di indici di un inserimento dell’attività nell’ambito del mercato degli stupefacenti, dall’oggettiva destinazione di quanto prodotto all’uso personale esclusivo del coltivatore.

Infatti, le cautele che il legislatore ha inteso avere per la coltivazione vera e propria [c.d. tecnico-agraria] non sono pertinentemente invocabili rispetto alla attività di coltivazione domestica di poche piante per l’uso personale del coltivatore: il quantum del ricavato, reale o potenziale, è talmente irrilevante da non potersi considerare significativo per influenzare il mercato, mentre, con valutazione assorbente, questa influenza sul mercato e il rischio di spaccio sono intrinsecamente escluse dalla finalità della condotta: quella destinazione all’uso personale che esclude qualsivoglia offensività della condotta, pur astrattamente conforme al tipo legale [la coltivazione].

A conferma dell’irrilevanza penale della coltivazione domestica, le Sezioni unite ricostruiscono innovativamente il bene giuridico tutelato dalla normativa degli stupefacenti, identificato nella sola salute individuale o collettiva, così superando quanto in precedenza sostenuto [cfr. la citata sentenza delle Sezioni unite Di Salvia e, in precedenza, la sentenza delle stesse Sezioni unite, 24 giugno 1998, Kremi] circa la ravvisabilità dell’oggettività giuridica del reato [anche] nella sicurezza, nell’ordine pubblico, nella salvaguardia delle giovani generazioni, nell’impedimento dell’incremento del mercato degli stupefacenti. Proprio la valorizzazione della [sola] salute individuale e collettività come fondamento della sanzionabilità della condotta spiega il giudizio di irrilevanza della coltivazione domestica, condotta ex se concettualmente inidonea ad attentare a tale bene.

Anzi, precisano le Sezioni unite, la coltivazione domestica non solo è penalmente irrilevante, ma non può essere ex se neppure sanzionata amministrativamente ex articolo 75 del dpr n. 309 del 1990 per difetto di tipicità, giacché tale fattispecie sanzionatoria amministrativa è espressamente limitata a condotte diverse [importazione, esportazione, acquisto, ricezione, detenzione] qualificate dall’uso personale, mentre non è affatto considerata la condotta di coltivazione, anche laddove fosse finalizzata all’uso personale.

Piuttosto, l’articolo 75 cit. potrà essere applicato nel caso in cui il coltivatore, a processo di maturazione completato e avvenuta la raccolta, venga trovato in possesso del ricavato della coltivazione, se e in quanto dotato di principio attivo drogante: in tal caso, sarà sanzionata la detenzione del prodotto della coltivazione, ma non la coltivazione in sé.

Una conclusione convincente

Il cambiamento di impostazione è radicale e assolutamente convincente.

Uno spunto a favore di questa lettura estensiva, a ben vedere, già lo si poteva trarre proprio dalla sentenza n. 109 del 2016 della Corte costituzionale, laddove i giudici delle leggi, esaminando il tema dell’accertamento dell’offensività in concreto della condotta di coltivazione, avevano affermato che alla declaratoria di non punibilità della coltivazione si poteva pervenire sia facendo riferimento ai principi del reato impossibile [quindi, valorizzando la non offensività della condotta], sia attraverso il riconoscimento del difetto di tipicità del comportamento incriminato.

Ne conseguiva – proprio dai principi espressi dal giudice delle leggi- che il fatto poteva e doveva ritenersi “atipico”, laddove caratterizzato dall’insussistenza di un principio attivo rilevabile, risultando, quindi, non conforme al “tipo” della coltivazione penalmente rilevante. E poteva e doveva essere ritenuto “inoffensivo” quando, pur in presenza di principio attivo, si fosse trattato di un quantitativo così minimale da essere inidoneo in concreto ad offendere i beni giuridici tutelati dalla sanzione penale così come sopra ricostruiti.

Ebbene, anche a voler individuare tra i beni tutelati dalla disciplina penale sanzionatoria degli stupefacenti, non solo la salute individuale e collettiva [come qui hanno sostenuto le Sezioni unite], ma anche l’esigenza di evitare la diffusione della droga sul mercato e la sicurezza/ordine pubblico, risulta evidente che non possa pervenirsi a sanzionare condotte minimali quali quelle rientranti nella nozione di coltivazione domestica.

Infatti, non sarebbe possibile sostenere la verificazione di una lesione del “bene della salute”, a fronte di una sostanza che, proprio per la modestia quantitativa del principio attivo, risultasse pressoché inidonea a determinare gli effetti lesivi che le sono normalmente propri. Anche perché il “bene della salute” tutelato nell’ambito del sistema repressivo penale degli stupefacenti deve essere pur sempre apprezzato nella prospettiva del terzo destinatario della droga [qui, da escludere, proprio perché si tratterebbe pur sempre di coltivazione per uso personale].

Neppure sarebbe possibile sostenere alcun concreto effetto negativo sul “mercato illecito della droga”, in presenza di quantitativi minimali e tali da escludere una effettiva “diffusione” della sostanza. Del resto, la pretesa maggiore pericolosità della coltivazione è pur sempre correlata al fatto che trattasi di attività che è destinata ad accrescere “indiscriminatamente” i quantitativi coltivabili e quindi ha una “maggiore potenzialità diffusiva” delle sostanze stupefacenti estraibili [come ribadito proprio dalla sentenza della Corte costituzionale n. 109 del 2016; ma già in precedenza lo si era affermato nella sentenza della stessa Corte n. 360 del 1995]: situazioni empiricamente inconcepibili in presenza di attività modestissime e rudimentali di coltivazione, laddove qualsivoglia prognosi di diffusività indiscriminata del ricavato è concettualmente impraticabile.

Infine, neppure sarebbe possibile invocare alcuna lesione anche solo potenziale alle esigenze della “sicurezza” e dell’“ordine pubblico”: esigenze non utilmente richiamabili in presenza di condotte illecite aventi ad oggetto sostanze stupefacenti in quantitativi minimali, privi di alcun effetto realmente efficiente rispetto a beni di tale rilievo collettivo.

L’accertamento del reato e “maturazione” delle piante

La decisione delle Sezioni unite fa chiarezza anche su un’altra questione, quella del trattamento da riservare alle ipotesi di coltivazione [non domestica] accertate “anticipatamente”, cioè quando ancora le piante non siano giunte a maturazione.

Anche sotto questo profilo le conclusioni della Cassazione paiono pienamente convincenti perché in linea con la rilevata pericolosità della condotta di coltivazione [non domestica] propugnata dal legislatore.

Non è allora dubitabile che la coltivazione di stupefacenti è configurabile come reato indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente. Nulla rileva quindi, per escludere il reato, il fatto che l’intervento degli organi di polizia si sia realizzato quando ancora le piante non sono arrivate a maturazione e non presentano ancora un principio attivo apprezzabile.

Questa conclusione non è infatti incompatibile con la necessità di verificare in concreto l’offensività della condotta [in questo senso sono le indicazioni – tra l’altro- delle menzionate pronunce della Corte costituzionale: cfr., in particolare, la sentenza n. 109 del 2016 della Corte costituzionale].

L’inoffensività della condotta [tale in ipotesi da far scattare l’ipotesi del reato impossibile] non può che essere assoluta e come tale va apprezzata e considerata, non potendo dipendere da circostanze occasionali e contingenti, quali il grado di maturazione delle piante al momento dell’intervento delle forze dell’ordine.

In altri termini, la disciplina del reato impossibile non potrebbe essere richiamata rispetto alla condotta di coltivazione che non sia risultata in grado di produrre principio attivo stupefacente solo occasionalmente, in ragione del tempestivo intervento effettuato dalle forze di polizia prima della maturazione delle piante: in tale evenienza, infatti, l'inidoneità della condotta non potrebbe considerarsi assoluta, essendo conseguenza di un evento assolutamente accidentale.

Da quanto esposto consegue che, in presenza di una condotta di coltivazione, il giudice ha però l'obbligo di procedere sempre a verificare, attraverso apposita consulenza tossicologica sulla natura e sulla qualità delle piante, se queste siano in grado o no di consentire di ricavare sostanza stupefacente dotata di un principio attivo idoneo a provocare l'effetto drogante, non potendosi "accontentare" della fatto che la pianta sia conforme al tipo botanico previsto e della definizione della condotta incriminata come integrante un reato di pericolo presunto, dovendo verificare – a prescindere dal grado di maturazione- [quanto meno] l’attitudine della pianta a produrre sostanza stupefacente.

A tal fine, quindi, per fondare la punibilità, sarà sufficiente l’accertamento che la coltivazione [a prescindere dallo stato dell’accertamento di polizia] si sia svolta in condizioni tali da potersene prefigurare il positivo sviluppo.

Mentre, puntualizza esattamente la Corte in parte motiva, potranno rilevare al fine di escludere la punibilità solo l’accertata inadeguata modalità di coltivazione da cui possa evincersi che la pianta non sarà in grado di realizzare il prodotto finale ovvero un eventuale risultato finale della coltivazione [verificabile ovviamente ex post] che non consenta di ritenere il raccolto conforme al normale tipo botanico o che consenta di apprezzare un raccolto che abbia un contenuto di principio attivo troppo povero per la utile destinazione all’uso quale droga.

Questa esatta conclusione inoltre non è ovviamente incompatibile con la rilevata irrilevanza penale della coltivazione domestica.

Infatti, in tale evenienza, la circostanza che le piante siano pervenute o no a maturazione e presentino o no del principio attivo [che sarebbe comunque modestissimo] è irrilevante perché non è sulla maturazione/non maturazione che si “gioca” la rilevanza penale o no del fatto: qui, come si è visto, il fatto deve ritenersi penalmente non significativo per difetto dell’offensività della condotta, perché in ogni caso il quantitativo di principio anche laddove presente sarebbe inidoneo a ledere i beni tutelati dalla norma [secondo la sentenza in commento, la salute individuale o collettiva].

Riferimenti normativi

Art. 73 D.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309

Art. 75 D.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309

Art. 49 c.p.


Cassazione penale, sezioni Unite, sentenza 16 aprile 2020 n. 12348

Reati contro il patrimonio - Dove si consuma il reato di frode informatica?

In tema di reati contro il patrimonio, il reato previsto dall’art. 640 ter, c.p. (frode informatica), si consuma nel momento e nel luogo in cui l'agente consegue l'ingiusto profitto con correlativo danno patrimoniale altrui. Ne consegue che la competenza territoriale deve essere attribuita al giudice del luogo dove il reo ha conseguito l'ingiusto profitto e non nel luogo ove ha sede il sistema informatico oggetto di manipolazione né nel luogo dove si consuma il depauperamento della persona offesa (Cassazione penale, sezione II, sentenza 17 marzo 2020, n. 10354).

di Alessio Scarcella - Consigliere della Corte Suprema di Cassazione

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

Conformi

Cass. pen. sez. I, n. 36359 del 01/09/2016

Difformi

Cass. pen. sez. III, n. 23798 del 15/06/2012


La Corte di Cassazione si sofferma, con la sentenza in commento, su una questione che può ritenersi ormai definitivamente risolta nella giurisprudenza di legittimità, attinente all’identificazione del luogo in cui si consuma il reato di frode informatica, previsto dall’art. 640-ter, c.p., ciò che rileva ai fini dell’individuazione del giudice cui spetta la competenza per territorio. La Suprema Corte, in particolare, in una fattispecie nella quale era stato contestato ad un soggetto il delitto di frode informatica per aver prelevato abusivamente la somma di euro 250 dalla carta poste pay della vittima, accreditandola sulla carta poste pay di un terzo, nella sua disponibilità, somma che poi prelevava appropriandosene, ha disatteso la tesi della difesa (secondo cui competente territorialmente a conoscere del reato era il giudice del luogo ove aveva sede il sistema informatico oggetto di manipolazione oppure quello del luogo dove si era consumato il depauperamento della persona offesa), ha diversamente ritenuto corretta la soluzione dei giudici di merito che avevano individuato come competente territorialmente il giudice del luogo dove il reo aveva conseguito l'ingiusto profitto.

Il fatto

La vicenda processuale segue, come anticipato, alla sentenza con cui la Corte d’appello aveva confermato la condanna inflitta in primo grado ad un soggetto per il reato di frode informatica. Si contestava al reo di aver abusivamente prelevato la somma di euro 250 dalla carta poste pay della vittima, accreditandola sulla carta poste pay di un terzo, nella sua disponibilità, somma che poi prelevava appropriandosene.

Il ricorso

Contro la sentenza proponeva ricorso per Cassazione l’imputato, sostenendo, per quanto qui di interesse, che la competenza territoriale era stata illegittimamente identificata nel luogo dove il ricorrente aveva conseguito l'ingiusto profitto mentre doveva essere identificata nel luogo ove aveva sede il sistema informatico oggetto di manipolazione oppure nel luogo dove si era consumato il depauperamento della persona offesa.

La decisione della Cassazione

La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha dichiarato inammissibile il ricorso dell’imputato.

È senz’altro utile una sintetica ricognizione normativa della questione. L'art. 640-ter, c.p. sotto la rubrica «Frode informatica», punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 51 a euro 1.032 la condotta di chiunque, alterando in qualsiasi modo il funzionamento di un sistema informatico o telematico o intervenendo senza diritto con qualsiasi modalità su dati, informazioni o programmi contenuti in un sistema informatico o telematico o ad esso pertinenti, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. La pena è della reclusione da uno a cinque anni e della multa da euro 309 a euro 1.549 se ricorre una delle circostanze previste dal numero 1) del secondo comma dell'articolo 640, ovvero se il fatto è commesso con abuso della qualità di operatore del sistema. La pena è della reclusione da due a sei anni e della multa da euro 600 a euro 3.000 se il fatto è commesso con furto o indebito utilizzo dell'identità digitale in danno di uno o più soggetti. Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo che ricorra taluna delle circostanze di cui al secondo e terzo comma o taluna delle circostanze previste dall'articolo 61, primo comma, numero 5, limitatamente all'aver approfittato di circostanze di persona, anche in riferimento all'età, e numero 7.

Con particolare riferimento al momento consumativo del reato, la giurisprudenza di legittimità ormai prevalente e più recente ritiene che il reato di frode informatica (art. 640 ter c.p.) ha la medesima struttura e quindi i medesimi elementi costitutivi della truffa, dalla quale si differenzia solamente perché l'attività fraudolenta dell'agente investe non la persona (soggetto passivo), di cui difetta l'induzione in errore, bensì il sistema informatico di pertinenza della medesima, attraverso la manipolazione di detto sistema. Anche la frode informatica si consuma, pertanto, nel momento in cui l'agente consegue l'ingiusto profitto con correlativo danno patrimoniale altrui (Cass. pen. sez. VI, n. 3065 del 14/12/1999, P.m. e D.V., CED Cass. 214942; Cass. pen. sez. I, n. 36359 del 01/09/2016, Confl. comp. in proc. V., CED Cass. 268252). Tale giurisprudenza ha definitivamente superato il risalente indirizzo che identificava il luogo di consumazione della frode informatica nel luogo in cui veniva eseguita la attività manipolatoria del sistema (Cass. pen. sez. III, n. 23798 del 15/06/2012, C. e altro, CED Cass. 253633; Cass. pen. sez. II, n. 6958 del 23/02/2011, G. e altri, CED Cass. 249660). Il reato di frode informatica aggravata, commesso in danno di un ente pubblico, si consuma invece nel momento in cui il pubblico dipendente infedele interviene, senza averne titolo, sui dati del sistema informatico, alterandone, quindi, il funzionamento (Cass. pen. sez. II, 25.1.2011, n. 6958).

La manipolazione del sistema informatico rappresenta infatti una modalità "speciale" e tipizzata di espressione dei comportamenti fraudolenti necessari per integrare la truffa "semplice": si tratta di una modalità della condotta che non esaurisce e perfeziona l'illecito che si consuma nel momento dell'ottenimento del profitto, come nella fattispecie "generale".

Nessun vizio, la Cassazione ha rilevato dunque nella scelta della Corte d’appello di confermare la legittimità della competenza territoriale.

Da qui, dunque, l’inammissibilità del ricorso.

Riferimenti normativi:

Art. 640-ter, c.p.


Cassazione penale, sezione II, sentenza 17 marzo 2020, n. 10354

Responsabilità civile - Caduta rovinosa su rampa condominiale: spetta al danneggiato provare il nesso causale

Il nuovo decreto ha rinviato integralmente l’entrata in vigore del d.lgs. n. 14/2019 inizialmente prevista per il 15 agosto 2020 per consentire a tutti i soggetti coinvolti di continuare ad operare secondo una disciplina consolidata e per permettere al sistema economico di superare la fase più acuta dell’emergenza economica.

di Ivan Libero Nocera - Avvocato in Torino e professore a contratto presso l'Università di Brescia
Il nuovo decreto legge “recante disposizioni urgenti per il sostegno alla liquidità delle imprese e all’esportazione” incide sulla disciplina delle procedure concorsuali rinviando, tra l’altro, l’entrata in vigore del Codice della Crisi d'impresa e dell'Insolvenza.

Invero, l’art. 6 prevede il differimento dell'entrata in vigore del d.lgs. 14/2019 - prevista originariamente per il 15 agosto 2020 - al 1° settembre 2021.

Tale differimento si unisce a quello, già previsto, con cui si era differita al 15 febbraio 2021 l’entrata in vigore delle misure di allerta volte a provocare l’emersione anticipata della crisi delle imprese.
La Corte di Cassazione, sentenza 27 marzo 2020, n. 7580, esclude la responsabilità del Condominio per i danni subiti da una condomina, caduta mentre scendeva una rampa condominiale. Sostiene che nei casi in cui il danno non sia l'effetto di un dinamismo interno alla cosa in custodia, di per sé statica e inerte, ma richieda che al modo di essere della cosa si unisca l'agire umano, per la prova del nesso causale occorre dimostrare che lo stato dei luoghi presentava un'obiettiva situazione di pericolosità, tale da renderne potenzialmente dannosa la normale utilizzazione.

di Katia Mascia - Avvocato in Benevento
Nel 2008 una condomina conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Avellino, il proprio Condominio, affinchè fosse accertata e dichiarata la responsabilità di questo, ex art. 2051 c.c., con conseguente sua condanna al risarcimento dei danni. Affermava di essere caduta rovinosamente e di aver riportato ferite alla gamba mentre scendeva la ripida rampa di accesso al piano interrato del condominio, la cui pavimentazione in cemento era in buona parte dissestata, resa viscida dalla pioggia e priva di trattamento antiscivolo, nonché di un sistema di raccolta delle acque piovane.

Si costituiva in giudizio il Condominio, il quale chiedeva il rigetto della domanda attorea, sostenendo che il sinistro fosse stato determinato dall’imperizia della donna che, nello scendere, non si era mantenuta al corrimano, ovvero dal caso fortuito.

Il convenuto ente chiamava in causa la compagnia di assicurazione, al fine di essere manlevato in caso di soccombenza in giudizio. Questa, nel costituirsi, chiedeva il rigetto sia della domanda principale, sia di quella di garanzia.

Nel 2013 il Tribunale campano si pronunciava rigettando la domanda della condomina, ritenendo non fosse stato dimostrato il nesso di causalità tra la cosa in custodia e l’evento dannoso e compensando tra le parti le spese processuali.

La decisione veniva impugnata dinanzi alla Corte di Appello di Napoli, la quale, nel 2017, confermava la sentenza di prime cure, modificandola soltanto nella parte relativa alla regolamentazione delle spese del giudizio di primo grado, le quali venivano poste a carico dell’attrice.

Avverso la sentenza del giudice di secondo grado la condomina proponeva ricorso per cassazione, sulla base di sei motivi. Il Condominio e la compagnia di assicurazione, intimati, non svolgevano difese.

Ad avviso della ricorrente la Corte territoriale aveva escluso erroneamente la responsabilità del Condominio - ritenendo mancante la prova del nesso causale tra l’evento dannoso e la cosa in custodia – mentre, invece, avrebbe dovuto verificare e valutare la pericolosità intrinseca della rampa, in base alle proprie caratteristiche, che ne rendevano potenzialmente pericoloso il normale utilizzo.

La ricorrente affermava che la scivolosità della rampa era stata confermata dal consulente tecnico di parte, diversamente da quanto sostenuto dal giudice d’appello, e di aver fatto un uso normale e consentito della stessa, limitandosi a transitare su di essa. La sentenza impugnata, dunque, era da ritenersi erronea nella parte in cui affermava che la condotta imprudente della signora aveva interrotto il suddetto nesso di causalità. Peraltro la Corte territoriale aveva affermato la sussistenza di una ridotta capacità deambulatoria della danneggiata senza alcun elemento probatorio.

I Supremi giudici della legittimità, esaminando congiuntamente questi motivi di doglianza (i primi tre), giungono a ritenerli infondati.

A loro avviso la Corte territoriale ha operato un corretto richiamo al principio giurisprudenziale affermato dalla Corte di legittimità, secondo il quale, sostanzialmente, la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia, prevista dall'art. 2051 c.c., ha carattere oggettivo, essendo sufficiente, per la sua configurazione, la dimostrazione, da parte dell'attore, del verificarsi dell'evento dannoso e del suo rapporto di causalità con il bene in custodia. Una volta provate queste circostanze, il custode, per escludere la propria responsabilità, ha l'onere di provare il caso fortuito, ossia l'esistenza di un fattore estraneo che, per il suo carattere di imprevedibilità e di eccezionalità, sia idoneo ad interrompere il nesso causale. Tuttavia, nei casi in cui il danno non sia l'effetto di un dinamismo interno alla cosa – non sia cioè scatenato dalla sua struttura o dal suo funzionamento - ma richieda che l'agire umano, in particolare quello del danneggiato, si unisca al modo di essere della cosa, essendo essa di per sé statica e inerte, per la prova del nesso causale occorre dimostrare che lo stato dei luoghi presentava un'obiettiva situazione di pericolosità, tale da rendere molto probabile, se non inevitabile, il danno. In altre parole occorre la dimostrazione che lo stato dei luoghi presentava peculiarità tali da renderne potenzialmente dannosa la normale utilizzazione.

La Corte napoletana - ritenendo che la ricorrente non avesse provato che la caduta fosse avvenuta a causa della presenza di una situazione di pericolo riconducibile al bene - ha svolto una valutazione di fatto, correttamente motivata, insindacabile in sede di legittimità.

La ricorrente, inoltre, con i restanti tre motivi di ricorso per Cassazione (quarto, quinto e sesto), riteneva nullo il capo della sentenza impugnata, riguardante la sua condanna alle spese del primo grado di giudizio, in quanto gli appellati (Condominio e compagnia assicuratrice), che, peraltro, si erano costituiti tardivamente, non avevano proposto impugnazione incidentale in relazione alla compensazione delle spese disposta, in primo grado, dal Tribunale di Avellino.

Il difensore della ricorrente, infatti, alla prima udienza dinanzi alla Corte napoletana, aveva sollevato l’eccezione di inammissibilità dell’appello incidentale per tardiva costituzione delle controparti, che la Corte d’Appello, erroneamente, in modo implicito, aveva rigettato.

In assenza dell’impugnazione incidentale, peraltro, la Corte napoletana non avrebbe potuto riformare il capo della decisione di primo grado relativo alla compensazione delle spese.

I Giudici di piazza Cavour ritengono, quindi, fondate tali motivazioni addotte dalla ricorrente, affermando che gli appellati, per poter ottenere la condanna di questa alle spese avrebbero dovuto presentare un autonomo ricorso, con specifici motivi, ai sensi dell’art. 342 c.p.c. e non limitarsi, invece, a una semplice richiesta di riforma delle spese del giudizio di primo grado.

Pertanto, con la sentenza in oggetto, la Suprema Corte rigetta i primi tre motivi di ricorso e accoglie il quarto, il quinto e il sesto. Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, dichiara tardivi gli appelli incidentali proposti dal Condominio e dalla compagnia assicuratrice, annullando la condanna alle spese della donna a favore degli intimati, in quanto non dovute. Compensa altresì tutte le spese dei diversi gradi di giudizio.

Riferimenti normativi:

Art. 2051 c.c.


Cassazione civile, sez. III., sentenza 27 marzo 2020, n. 7580



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PUBBLICAZIONI AVVOCATO DANILO DELIA


PUBBLICAZIONI

* RUSSO G., DELIA D., La donna autrice e vittima di omicidi: Relazione tenuta al XIX Congresso Nazionale della Società Italiana di Criminologia: Violenza individuale e violenza collettiva. Gargnano del Garda 3-5 novembre 2005.

* RUSSO, G., DELIA D., D'ARRIGO P.,FALDUTO N., Homicide between intimate partners in Italy:Relazione tenuta al: 7th Annual Conference of European Society of Criminology: Crime prevention and communities in Europe. Bologna 26-29 September 2007.

* RUSSO G., COSENTINO N., DELIA, D.,D'ARRIGO P.: Caratteristiche e atteggiamenti di 201 operatori penitenziari: Relazione tenuta al XXI Congresso Nazionale della Socetà Italiana in Criminologia: La prevenzione della criminalità e la politica criminale. Gargnano del Garda 18-20 Ottobre 2007.

* RUSSO G., DELIA D., D'ARRIGO P., FALDUTO N.,(2009)"Gli omicidi di coppia in Italia (1996-2004)", Rassegna Italiana di Criminologia, 2, 309-328.

* RUSSO G., DELIA D., D'ARRIGO P., FALDUTO N.,(2009)"Gli omicidi di coppia in Italia (1996-2004) Relazione tenuta al Convegno: "Storie di gelosia e follia. Note antologiche, psicopatologiche, forensi". Barcellona P.G. (Me) 23 Maggio 2009.

* RUSSO G., DELIA D., D'ARRIGO P., ROSI N. (2009)"Gli omicidi familiari tra migranti (1996-2009), Relazione tenuta al XXIII Congresso Nazionale della Società Italiana di Criminologia. S. Marino, 8-10 Ottobre.

* RUSSO G., DELIA D., D'ARRIGO P., ROSI N. (2010)"Gli omicidi familiari tra migranti (1996-2009), Rassegna Italiana di Criminologia 2, 251-271.

* RUSSO G., D'ARRIGO P., DELIA D., ROSI N. (2010): Intimate Partner Femicide (IPF)Fattori di rischio di vittimazione. Analisi multivariata su tutti i casi di IPF avvenuti in Italia dal 1 Giugno 2004 al 17 Giugno 2010-10-28, Relazione tenuta al XXIV Congresso Nazionale della Società Italiana di Criminologia. Como 14-16 Ottobre 2010.

* RUSSO G., D'ARRIGO P., DELIA D.,(2012) Omicidi di coppia in Italia(2004-2010), In: "Dall'amore all'odio: crimini in famiglia", ANFI (a cura di). Palermo

* RUSSO G., DELIA D., D'ARRIGO P., FALDUTO N., (2007), "Homicide between intimate partners in Italy", Relazione tenuta al 7th Annual Conference of European Society of Criminology: Crime, crime prevention and communities in Europe. Bologna 26-29 September 2007.

* RUSSO G., COSENTINO N., DELIA D., D'ARRIGO P., (2008), Caratteristiche e atteggiamenti di 200 operatori penitenziari a trent'anni dalla riforma", Rassegna Italiana in Criminologia, 1, 127-145.
I risultati di questo lavoro sono stati oggetto di una relazione tenuta al XXI Congresso Nazionale della Società Italiana di Crimilogia: la prevenzione della criminalità e la politica criminale, Gargnano del Garda 18-20 Ottobre 2007.

* RUSSO G., DELIA D., D'ARRIGO P., FALDUTO N. Studio su omicidi familiari commessi in Italia (1996-2004), (2008) Rassegna Italiana "di" criminologia, 3, 453-479.

* RUSSO G., DELIA D., D'ARRIGO P., COSENTINO N., FALDUTO N., (2008) "Le stragi familiari in Italia (1996-2008), Relazione tenuta al XXII Congresso Nazionale di Criminologia. S. Marino, 23-25 Ottobre.